martedì 14 aprile 2009

In principio fu la sistematina

Di punto in bianco il mio migliore amico parte con l’Erasmus. Destinazione: Canarie (Facoltà di Ingegneria Gestionale per chi fosse interessato). 
Per il mio già-precario-equilibrio-esistenziale è il colpo di grazia. Sono una Fallita: sono cinque mesi che sto ferma sulla tesi e ancora non mi laureo (vaglielo a spiegare alla psiche che la colpa è del professore), i miei non riesco nemmeno a guardarli in faccia, la mia vita sentimentale è un buco nero e il solo pensiero del futuro mi getta inevitabilmente nell’angoscia. Decido quindi che è arrivato il momento di Darsi Da Fare. Cominciando dalla cosa più ovvia. Trovare un lavoretto che: 

A) Mi sottragga dalla condizione di mantenuta 
B) mi tenga lontana dal mostro della tesi per qualche ora
C) mi permetta di andare in vacanza alle Canarie (ma forse questa era la A)

Non faccio in tempo ad esprimere il proposito che mi si presenta l’occasione di realizzarlo. Il macellaio di mia mamma mi propone un’occupazione part-time da un suo amico nella quale la parola chiave sembra essere “sistematina”: “Devi dare una sistematina al bancone, devi sistemare la pasta sui vassoi, una sistematina al laboratorio…”. Tale laboratorio produce pasta all’uovo ed appartiene ad un certo Gino, un signore di mezza età che conosco soltanto di vista ma che mi sta simpatico sulla fiducia. Naturalmente Gino vuole una risposta immediata: la ragazza gli serve subito quindi prendere o lasciare. Già mi vedo nei panni di Suor Germana a stendere la sfoglia col mattarello. Prendo.
Fin dal primo giorno del mio nuovo impiego capisco però che forse ho commesso qualche errore di valutazione. E imparo la prima regola fondamentale del giovane disoccupato: mai prendere per buono tutto quello che ti dicono. I datori di lavoro hanno la brutta abitudine di usare delle iperboli per descrivere la loro attività e degli eufemismi per indicarti i tuoi compiti. Detto in altre parole: ti presentano la merda come se fosse cioccolata. 
Scopro così che il famoso Laboratorio è un negozietto un po’ sfigato di una strada secondaria di un quartiere periferico. L’interno è diviso in tre parti: una specie di buco che dovrebbe essere il negozio vero e proprio, una stanza piena di macchine per fare la pasta e un corridoio strettissimo adibito a cucina che termina in un bagno. La luce del sole si ferma a tre metri dalla soglia. Per il resto tutta luce al neon a buon mercato, che abbinata ai mobili un po’ scorticati, alle pareti ingiallite e alla musica dei Pooh che arriva dallo stereo (l’unica cosa acquistata dopo gli anni Ottanta suppongo) mi fa temere seriamente per la mia sanità mentale. 
La moglie del proprietario, la signora Carla, mi accompagna subito alla mia postazione di lavoro, il lavello della cucina, e mi fa una panoramica del pomeriggio che mi aspetta: “Allora adesso comincia a lavare ‘sta roba” dice indicando il tavolone di tre metri coperto di padelle, ciotole ed altre cose di cui ignoro nome e funzione. “Me raccomando quando arrivi ar tubo dei gnocchi scarcagna bene che lì l’impasto se intartarisce e poi fa la muffa. Poi quando hai finito co’ quelli ce stanno le cassette da pulì. Verso le cinque passa di là, fai le vetrine e sistema la pasta sugli scaffali. Poi te chiama Gino quando ha finito che gli fai le macchine col frigorifero. Poi niente, dai ‘na pulita ar bagno, ‘na scopata, ‘na lavata e te ne vai”. 
Alla faccia della “sistematina”!



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